alessio delfino

Tarots preview – Femmes d’or

Paolo Erbetta Arte Contemporanea
Italy 71100 Foggia Via IV Novembre 2 +390881723493
http://www.galleriapaoloerbetta.it
info@galleriapaoloerbetta.it
19 dicembre 2009 > 28 febbraio 2010
a cura di Nicola Davide Angerame e Paolo Erbetta
Inaugurazione Sabato 19 Dicembre 18,30 > 21,30
Orari: Lunedì – Sabato 11,00 – 13,00 / 17,00 – 20,30. Merc. e Giov. su appuntamento
“E’ come se io dovessi leggere nella Fotografia i miti del Fotografo, fraternizzando con loro, senza crederci troppo”.
Roland Barthes, La camera chiara
La doppia personale presso la Galleria Paolo Erbetta espone i recenti lavori di Alessio Delfino (1976 Savona) e Chiara Coccorese (1982 Napoli), due artisti che “giocano” con la fotografia in senso letterale e metaforico: “letterale” perché entrambi amano dedicare energie alla costruzione dei propri set; “metaforico” perché in questo gioco con la fotografia è la stessa fotografia ad essere messa in gioco nella sua natura di obiettiva riproduzione del reale e diventa proiezione dell’interiorità.
Tarots è la nuova serie fotografica di Alessio Delfino, dedicata alla rappresentazione dei ventidue arcani maggiori del mazzo del Tarocco Marsigliese, nella versione commissionata nella prima metà del XV secolo dal duca di Milano Filippo Maria Visconti che rappresenta la più alta espressione del tarocco nei secoli.
Nel suo lavoro ultradecennale il giovane fotografo savonese ha messo al centro del proprio lavoro la donna come oggetto di studio. Nei Tarots la forza del simbolo si intreccia al potere seduttivo del corpo. E’ L’Imperatrice il primo scatto di questa ricerca “sapienziale” che interpreta i tarocchi in versione femminile. L’uomo è soggiogato al destino, così come lo è all’eterno femminino, che gli si sovrappone in un gioco di rimandi. Le Diable vede in scena un uomo assoggettato al potere muliebre. In una società laica e improntata dall’esaltazione del self made man, l’idea di destino non ha molto seguito. Compiendo un’operazione pop, Delfino trova il modo di parlare di quel “fato” che è per secoli ha rappresentato una vera ossessione culturale per l’uomo. Senza il Fato non esisterebbero infatti i poemi antichi, la tragedia greca, l’astrologia e molto altro, inclusi i Tarocchi. La femme fatale dei Tarots di Delfino ha origine da qui. Utilizzando lo stile neobarocco, la fotografia di Delfino parla di un mondo inteso come “grande rappresentazione” e della vita come un percorso di assoggettamento, più o meno volontario e consapevole, al potere del simbolico. Lo fa unendo alcuni punti di riferimento, da Erwin Olaf a Helmut Newton, passando per David LaChapelle. Se del primo, Delfino ammira le atmosfere vintage ed eleganti, evocative e misteriose, del secondo apprezza l’uso di modelle dotate di una bellezza post-femminista, più consapevole e dai tratti aggressivi, decisionisti, manageriali, perfino sadici. Dall’ultimo, Delfino desume invece un certo gusto per il gioco, per l’ammiccamento e per un barocchismo che, se in LaChapelle si conoscono i noti eccessi ultrapop e manieristi, in Delfino restano sommessi per non rompere l’equilibrio imposto dal serafico afflato delle carte del destino. Un flatus voci, quello de L’Imperatrice, che irrompe da una simbiosi postmoderna in cui la fotografia sfrutta ogni sua possibilità per creare uno spazio in cui i sensi e i simboli possono aleggiare con drammatica leggerezza, senza perdere la profondità di una sensazione originaria e senza piombare nei fasti desueti della retorica. Come fa notare Roland Barthes in un suo libro capitale, per chi guarda “è come se” dovesse “leggere nella Fotografia i miti del Fotografo, fraternizzando con loro, senza crederci troppo”. La fotografia di Delfino produce un tale effetto di fascinazione non violenta, di seduzione giocosa, di seria ilarità dando all’immagine la possibilità d’essere letta su più piani.
Nella precedente serie Femmes d’or, invece, Delfino matura una astrazione e drammatizzazione del nudo. Dopo aver dedicato due serie alla trasformazione del corpo in paesaggio e alla trasfigurazione della carne in esile scrittura di luce, Delfino approda ad una serie in cui usa la body painting dorata su modelle non professioniste, per offrire una diversa tessitura alla pelle ed impostare un altro rapporto tra carne, luce e fotografia. Intrappolati dentro spesse cornici dorate, figlie di un certo gusto barocco per l’eccesso, questi frammenti di corpi danzanti divengono oggetti voluttuosi e drammatici. La consistenza eterea delle masse, la plasticità dei volumi corporei e l’armonia delle forme determinano una fotografia scultorea, in cui il corpo assume una valenza spirituale. Il frammento corporeo permette di cogliere meglio l’espressività del tutto, tenendo a debita distanza l’erotismo, al quale Delfino pone rimedio “denudando il nudo”, togliendo ogni segno e cercando del corpo una forma più autentica, una vitalità più vera.
Se il mondo di Delfino è rivolto alle suggestioni provenienti da un mondo antico e scomparso che crede nella bellezza come armonia e nel destino come “libro” già scritto, quello di Chiara Coccorese è invece rivolto ad un altro luogo di sopravvivenza del “mito”. Si tratta di un luogo accogliente e inquietante quale è quello della fiaba. Grazie ad un approccio narrativo alla fotografia di genere stage photography, Coccorese ricostruisce un mondo utilizzando il linguaggio sognante dell’infanzia. Uno stadio dell’esistenza connotato da un approccio gnoseologico al gioco: costruendo il proprio universo si ripete quello reale al fine di renderlo familiare, giocandoci come se quel questo potesse essere disponibile, addomesticabile. L’ottica mitizzante serve proprio ad abbellire e personificare le “quattro stagioni”, ad esempio, al fine di creare un ponte antropologico con la Natura indifferente rispetto al destino e al dolore umani, di cui Giacomo Leopardi ha lasciato un testamento assoluto nel Dialogo della Natura e di un islandese.
In questa ricostruzione l’artista si chiama in causa attraverso un lavorio di specchi riflettenti la propria immagine. Aspetto concettuale di una fotografia che fornisce una visione surreale, divertita e divertente, ma cerca un contatto con gli aspetti più ideali del fotografare: l’autorialità, il rapporto tra il soggetto e l’oggetto del fotografare, la presenza dell’autore nell’opera. Come ci ha insegnato il capolavoro aurorale di Diego Velàzquez, Las Meninas, l’autore dell’opera può entrare a farne parte attraverso uno sguardo che renda evidente la propria autorevolezza. Coccorese lo fa in Autunno, dove inscena un personaggio femminile immerso dentro una scena di sapore autunnale. Il fondale è dipinto, gli alberi sono fatti di frutti e bacche, il terreno è popolato di foglie secche e noci la donna è fatta di legni. Tutto è finto perché sia vero. L’idea del pupazzo viene qui messa al centro di un gioco di cui l’autrice è il deus ex machina, la designer di una scenografia che possiede i caratteri di una narrazione che non porta in nessun luogo, come una favola appena accennata da leggere in profondità, come lo Spaventapasseri crocifisso, piuttosto che nella distensione cronologica. Ci si aspetta una storia, ma i lavori di Coccorese sono legati ad una visionarietà che apre una dimensione del narrare che collega le inquietudini del sogno e la semplicità della favola ad certo un simbolismo infantile. Coccorese illustra i capitoli di una narrazione che si dipana come un sogno, come una fiaba destrutturata, in cui i personaggi e i paesaggi non stanno più insieme ma vanno ciascuno per conto proprio. Un mondo di colori come ne la Fabbrica di cioccolato diretta da quel Tim Burton a cui Coccorese potrebbe essere debitrice, se soltanto il suo lavoro propendesse decisamente verso la direzione del grottesco invece di optare per una più genuina vena drammatica e giocosa che l’avvicina al teatro delle maschere italiano e che proprio nella tradizione partenopea sa essere così ricco di colori e personaggi.
La fotografia di Coccorese parte da dove Andy Warhol ha terminato e da quella consapevolezza che la stage photography ha maturato, confermando l’intenzione degli artisti di fotografare mondi da loro stessi creati. La fine dell’immagine “per eccesso di immagini” profetizzata da Warhol, che serigrafava foto “rubate” ai media, porta alla fine della fotografia pensata come racconto del reale e fa nascere un nuovo mondo che bene ha descritto un “fotografo giocoliere” come Vik Muniz, usando la massima: “Non c’è più nulla da fotografare. Se vuoi fotografare qualcosa di nuovo, devi prima crearlo”. E’ la nascita di una fotografia che registra un mondo creato appositamente per lei, spesso per un solo battito del suo otturatore.
Nicola Davide Angerame

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Paolo Erbetta Arte Contemporanea
Italy 71100 Foggia Via IV Novembre 2 +390881723493
http://www.galleriapaoloerbetta.it info@galleriapaoloerbetta.it

19 dicembre 2009 > 28 febbraio 2010

a cura di Nicola Davide Angerame e Paolo Erbetta

Inaugurazione Sabato 19 Dicembre 18,30 > 21,30

Orari: Lunedì – Sabato 11,00 – 13,00 / 17,00 – 20,30. Merc. e Giov. su appuntamento

“E’ come se io dovessi leggere nella Fotografia i miti del Fotografo, fraternizzando con loro, senza crederci troppo”.
Roland Barthes, La camera chiara

La doppia personale presso la Galleria Paolo Erbetta espone i recenti lavori di Alessio Delfino (1976 Savona) e Chiara Coccorese (1982 Napoli), due artisti che “giocano” con la fotografia in senso letterale e metaforico: “letterale” perché entrambi amano dedicare energie alla costruzione dei propri set; “metaforico” perché in questo gioco con la fotografia è la stessa fotografia ad essere messa in gioco nella sua natura di obiettiva riproduzione del reale e diventa proiezione dell’interiorità.

Tarots è la nuova serie fotografica di Alessio Delfino, dedicata alla rappresentazione dei ventidue arcani maggiori del mazzo del Tarocco Marsigliese, nella versione commissionata nella prima metà del XV secolo dal duca di Milano Filippo Maria Visconti che rappresenta la più alta espressione del tarocco nei secoli.

Nel suo lavoro ultradecennale il giovane fotografo savonese ha messo al centro del proprio lavoro la donna come oggetto di studio. Nei Tarots la forza del simbolo si intreccia al potere seduttivo del corpo. E’ L’Imperatrice il primo scatto di questa ricerca “sapienziale” che interpreta i tarocchi in versione femminile. L’uomo è soggiogato al destino, così come lo è all’eterno femminino, che gli si sovrappone in un gioco di rimandi. Le Diable vede in scena un uomo assoggettato al potere muliebre. In una società laica e improntata dall’esaltazione del self made man, l’idea di destino non ha molto seguito. Compiendo un’operazione pop, Delfino trova il modo di parlare di quel “fato” che è per secoli ha rappresentato una vera ossessione culturale per l’uomo. Senza il Fato non esisterebbero infatti i poemi antichi, la tragedia greca, l’astrologia e molto altro, inclusi i Tarocchi. La femme fatale dei Tarots di Delfino ha origine da qui. Utilizzando lo stile neobarocco, la fotografia di Delfino parla di un mondo inteso come “grande rappresentazione” e della vita come un percorso di assoggettamento, più o meno volontario e consapevole, al potere del simbolico. Lo fa unendo alcuni punti di riferimento, da Erwin Olaf a Helmut Newton, passando per David LaChapelle. Se del primo, Delfino ammira le atmosfere vintage ed eleganti, evocative e misteriose, del secondo apprezza l’uso di modelle dotate di una bellezza post-femminista, più consapevole e dai tratti aggressivi, decisionisti, manageriali, perfino sadici. Dall’ultimo, Delfino desume invece un certo gusto per il gioco, per l’ammiccamento e per un barocchismo che, se in LaChapelle si conoscono i noti eccessi ultrapop e manieristi, in Delfino restano sommessi per non rompere l’equilibrio imposto dal serafico afflato delle carte del destino. Un flatus voci, quello de L’Imperatrice, che irrompe da una simbiosi postmoderna in cui la fotografia sfrutta ogni sua possibilità per creare uno spazio in cui i sensi e i simboli possono aleggiare con drammatica leggerezza, senza perdere la profondità di una sensazione originaria e senza piombare nei fasti desueti della retorica. Come fa notare Roland Barthes in un suo libro capitale, per chi guarda “è come se” dovesse “leggere nella Fotografia i miti del Fotografo, fraternizzando con loro, senza crederci troppo”. La fotografia di Delfino produce un tale effetto di fascinazione non violenta, di seduzione giocosa, di seria ilarità dando all’immagine la possibilità d’essere letta su più piani.

Nella precedente serie Femmes d’or, invece, Delfino matura una astrazione e drammatizzazione del nudo. Dopo aver dedicato due serie alla trasformazione del corpo in paesaggio e alla trasfigurazione della carne in esile scrittura di luce, Delfino approda ad una serie in cui usa la body painting dorata su modelle non professioniste, per offrire una diversa tessitura alla pelle ed impostare un altro rapporto tra carne, luce e fotografia. Intrappolati dentro spesse cornici dorate, figlie di un certo gusto barocco per l’eccesso, questi frammenti di corpi danzanti divengono oggetti voluttuosi e drammatici. La consistenza eterea delle masse, la plasticità dei volumi corporei e l’armonia delle forme determinano una fotografia scultorea, in cui il corpo assume una valenza spirituale. Il frammento corporeo permette di cogliere meglio l’espressività del tutto, tenendo a debita distanza l’erotismo, al quale Delfino pone rimedio “denudando il nudo”, togliendo ogni segno e cercando del corpo una forma più autentica, una vitalità più vera.

Se il mondo di Delfino è rivolto alle suggestioni provenienti da un mondo antico e scomparso che crede nella bellezza come armonia e nel destino come “libro” già scritto, quello di Chiara Coccorese è invece rivolto ad un altro luogo di sopravvivenza del “mito”. Si tratta di un luogo accogliente e inquietante quale è quello della fiaba. Grazie ad un approccio narrativo alla fotografia di genere stage photography, Coccorese ricostruisce un mondo utilizzando il linguaggio sognante dell’infanzia. Uno stadio dell’esistenza connotato da un approccio gnoseologico al gioco: costruendo il proprio universo si ripete quello reale al fine di renderlo familiare, giocandoci come se quel questo potesse essere disponibile, addomesticabile. L’ottica mitizzante serve proprio ad abbellire e personificare le “quattro stagioni”, ad esempio, al fine di creare un ponte antropologico con la Natura indifferente rispetto al destino e al dolore umani, di cui Giacomo Leopardi ha lasciato un testamento assoluto nel Dialogo della Natura e di un islandese.

In questa ricostruzione l’artista si chiama in causa attraverso un lavorio di specchi riflettenti la propria immagine. Aspetto concettuale di una fotografia che fornisce una visione surreale, divertita e divertente, ma cerca un contatto con gli aspetti più ideali del fotografare: l’autorialità, il rapporto tra il soggetto e l’oggetto del fotografare, la presenza dell’autore nell’opera. Come ci ha insegnato il capolavoro aurorale di Diego Velàzquez, Las Meninas, l’autore dell’opera può entrare a farne parte attraverso uno sguardo che renda evidente la propria autorevolezza. Coccorese lo fa in Autunno, dove inscena un personaggio femminile immerso dentro una scena di sapore autunnale. Il fondale è dipinto, gli alberi sono fatti di frutti e bacche, il terreno è popolato di foglie secche e noci la donna è fatta di legni. Tutto è finto perché sia vero. L’idea del pupazzo viene qui messa al centro di un gioco di cui l’autrice è il deus ex machina, la designer di una scenografia che possiede i caratteri di una narrazione che non porta in nessun luogo, come una favola appena accennata da leggere in profondità, come lo Spaventapasseri crocifisso, piuttosto che nella distensione cronologica. Ci si aspetta una storia, ma i lavori di Coccorese sono legati ad una visionarietà che apre una dimensione del narrare che collega le inquietudini del sogno e la semplicità della favola ad certo un simbolismo infantile. Coccorese illustra i capitoli di una narrazione che si dipana come un sogno, come una fiaba destrutturata, in cui i personaggi e i paesaggi non stanno più insieme ma vanno ciascuno per conto proprio. Un mondo di colori come ne la Fabbrica di cioccolato diretta da quel Tim Burton a cui Coccorese potrebbe essere debitrice, se soltanto il suo lavoro propendesse decisamente verso la direzione del grottesco invece di optare per una più genuina vena drammatica e giocosa che l’avvicina al teatro delle maschere italiano e che proprio nella tradizione partenopea sa essere così ricco di colori e personaggi.

La fotografia di Coccorese parte da dove Andy Warhol ha terminato e da quella consapevolezza che la stage photography ha maturato, confermando l’intenzione degli artisti di fotografare mondi da loro stessi creati. La fine dell’immagine “per eccesso di immagini” profetizzata da Warhol, che serigrafava foto “rubate” ai media, porta alla fine della fotografia pensata come racconto del reale e fa nascere un nuovo mondo che bene ha descritto un “fotografo giocoliere” come Vik Muniz, usando la massima: “Non c’è più nulla da fotografare. Se vuoi fotografare qualcosa di nuovo, devi prima crearlo”. E’ la nascita di una fotografia che registra un mondo creato appositamente per lei, spesso per un solo battito del suo otturatore.

Nicola Davide Angerame