alessio delfino

Tarots – Nürnberg

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È come se la fotografia mi permettesse di vedere le leggende del fotografo, fraternizzando con loro ma non credendoci.

Roland Barthes, Camera Lucida.

Questa nuova serie, intitolata Tarots, è un work-in-progress che rappresenta i ventidue arcani maggiori del mazzo del Tarocco Marsigliese- la cui massima espressione fu forse l’interpretazione commissionata nella prima metà del XV secolo da Filippo Maria Visconti, Duca di Milano – usato nei secoli per la divinazione esoterica del destino degli uomini. La serie si apre con tre immagini, che significano i principali numeri Arcana XV Le Diable (Il Diavolo), XVIII La Lune (La Luna) e XIX Le Soleil (Il Sole) in mostra in dimensioni gigantesche nella sala d’ingresso della Galleria. Tale statura non è un esercizio stilistico ma una dichiarazione di sottomissione dell’essere umano verso il destino e del maschio verso la femmina.Almeno così il giovane artista savonese considera la questione dell’eterno femminile: nella sua miriade di opere Delfino ha sempre fatto della donna un oggetto di studio, allontanandola da quel contesto di esplicito e consumistico desiderio a cui è stata relegata da gran parte del mondo fotografico. La sua esaltazione della bellezza femminile e del nudo artistico, genere che non gli impedisce di raggiungere risultati concettuali, è funzionale ad uno scopo non dichiarato e altrettanto evidente se si ha familiarità con ciò che Delfino ha creato finora: la conoscenza. Non è conoscenza della bellezza, del fisico, dei corpi umani rappresentati, ma conoscenza esoterica della verità, dell’autentico, dell’origine. In questo senso, Tarots è un notevole seguito alla serie delle Dee delle Metamorphoseis, esposta nel 2008 al Castello di Rivara durante una mostra personale nell’area delle scuderie e ora una collezione permanente presso il museo. In quella serie Delfino si concentrò sulla pura fisicità, sui tratti somatici del corpo femminile da cui si possono dedurre caratteri, personalità e temperamenti. L’artista li ha assemblati e combinati per creare un “gioco” interpretativo tra la realtà quotidiana (quella delle “modelle della porta accanto”) e le figure mitologiche di un Pantheon obsoleto ma ancora attivo nella nostra civiltà. Questo “gioco” ha portato in scena una fisionomia istintiva, una “consapevolezza della sensibilità” che chiamare intuizione sarebbe un’enorme semplificazione. Si potrebbe definire un dialogo interiore che cerca il significato di un corpo, quello di un modello, che diventa subito espressione di una “persona”. Assimilando inconsciamente le teorie del corpo della filosofia contemporanea, Delfino introduce nella fotografia un elemento chiave: quello del sapere inteso come “relazione”. In Tarots la fotografia relazionale di Delfino si nutre del rapporto tra l’artista e la modella in modi eterodossi rispetto alla “pratica” della fotografia (pubblicitaria) che sfrutta l’aspetto dei corpi. Delfino parla, conosce e ascolta le aspirazioni profonde delle sue donne, poi lavora creando l’ambiente più adatto per loro. L’Imperatrice è il primo esempio di questa ricerca conoscitiva legata al mondo dei Tarocchi, un mondo che affascina l’artista per il suo potere rivelatore, non di una realtà oggettiva ma di un universo di simboli che si riferiscono all’interiorità e alla sensibilità. Nello stesso modo in cui il mondo è “rappresentazione”, anche la vita e il destino degli uomini sono soggetti al potere del simbolico. Gli arcani maggiori con cui Delfino mantiene un dialogo iconologico interpretativo sono quelli del Tarocco Marsigliese. Se in Metamorphoseis ha usato la posa neutra e la natura sequenziale per creare un classicismo serafico, in Tarots il risultato è più raffinato e tende alla plasticità. Delfino accoglie le richieste dei Tarocchi utilizzando certe ispirazioni e atmosfere di specifici punti di riferimento, ovvero Erwin Olaf, Helmut Newton e David Lachapelle. Se del primo, Delfino ammira le atmosfere vintage ed eleganti, evocative e misteriose, del secondo apprezza l’uso di modelle dotate di una bellezza post-femminista, più consapevole e dai tratti aggressivi, decisionisti, manageriali, perfino sadici. Dall’ultimo, Delfino desume invece un certo gusto per il gioco, per l’ammiccamento e per un barocchismo che, se in LaChapelle si conoscono i noti eccessi ultrapop e manieristi, in Delfino restano sommessi per non rompere l’equilibrio imposto dal serafico afflato delle carte del destino. Un flatus voci, quello de L’Imperatrice, che irrompe da una simbiosi postmoderna in cui la fotografia sfrutta ogni sua possibilità per creare uno spazio in cui i sensi e i simboli possono aleggiare con drammatica leggerezza, senza perdere la profondità di una sensazione originaria e senza piombare nei fasti desueti della retorica. Come fa notare Roland Barthes in un suo libro capitale, per chi guarda “è come se” dovesse “leggere nella Fotografia i miti del Fotografo, fraternizzando con loro, senza crederci troppo”. La fotografia di Delfino produce un tale effetto di fascinazione non violenta, di seduzione giocosa, di seria ilarità dando all’immagine la possibilità d’essere letta su più piani,stratificandone così il significato e dimostrando che la fotografia è capace di coniugare glamour e suspense. Come se la bellezza fosse solo la maschera di una verità più profonda. L’Imperatrice è il primo risultato di un tale concetto ed è il primo portale nel lavoro di uno dei fotografi di nuova generazione più interessanti d’Italia.

Nicola Davide Angerame