alessio delfino

photographier les yeux fermés rêver les yeux ouverts

La Visione Greca di Alessio Delfino

Fotografia tra Lebenstanz e Totentanz

di Viana Conti

 

La danza può rivelare tutto ciò che la musica racchiude.

Charles Baudelaire

 

Io crederei solo ad un dio che sapesse danzare…Su, uccidiamo lo spirito di gravità! Ora sono leggero, ora volo, ora mi vedo sotto di me, ora è un dio che si serve di me per danzare. Così parlò Zarathustra.
Friedrich Nietzsche

 

Alessio Delfino, artista italiano, francese di adozione, declina il Corpo, nel ciclo che porta il titolo di Rêves/Sogni, sia come superficie che si dispiega nel processo del suo divenire nello spazio che come pellicola filmica che appare nel suo disparire. Disvelamento, e quindi Apokalypsis, e al tempo stesso velo fluido, trasparente e leggero, in cui il peso della fisicità corporale si fa luce, scrittura…scrittura di luce. Il linguaggio fotografico si ricongiunge così all’etimo greco di phòs-photòs e graphìa, profilandosi nella continuità del disegno, nell’astrazione ricorrente del segno. Ritraendosi dalla rappresentazione del corpo nella sua pienezza, l’autore non cessa invece di dischiuderlo nel suo farsi movimento, traccia, memoria, desiderio, percorso di acquisizione e conoscenza. Se di nudo si può parlare, a proposito del suo lavoro, occorre però rilevare che la nudità assoluta che ci prospetta è quella della sparizione del reale, espressa nella narrazione delle sue pieghe. Nei suoi scenari, che si strutturano come suture di situazioni oscillanti tra il sonno e la veglia, Alessio Delfino fa danzare la donna, sullo schermo fluido del suo immaginario, come imprescindibile figura dell’origine, arborescente, genealogica, nucleo generativo rinviante a caratterizzazioni morfologiche paracristallografiche. Ricorre, nel lavoro, il riferimento al principio del femminile come mito venusiano, come archetipo della fecondità creativa dell’essere, come coniugazione di Eidos con Eidolon, di idea con immagine, di forma con contenuto.

Questo indecidibile fotografo ha individuato nel corpo femminile, non certo una vittima sacrificale, ma quel suo campo semantico in cui può risuonare la profezia dell’oracolo delfico, la luce della verità e della conoscenza. Eros e Thanatos, energie originarie e destinali, non cessano, in ogni fase dell’opera di Alessio Delfino, di incrociare i loro sguardi, di coniugare il desiderio della bellezza con il desiderio della conoscenza, con le luci e le ombre dell’Essere. In Rêves l’artista mette in opera un set fotografico che risponde ad una fenomenologia immaginativa e proiettiva di segno onirico, volta a trascrivere, in uno scenario visibile, di inenarrabile bellezza, ma anche di inquietante mistero, l’universo invisibile dei pensieri latenti, i sommovimenti ondivaghi delle associazioni del profondo, le fughe dalla realtà nelle divagazioni visionarie della mente. Attratte da inesplorati vortici temporali verso zone remote di uno spazio subliminale, verso dimensioni inafferrabili dell’essere, creature, dai corpi bellissimi, fondendo le loro morbide membra l’una nell’altra, danno origine ad un mutante dai tentacoli di medusa, dalla pelle tatuata di serpente, dagli occhi ipnotici, pietrificanti come lo sguardo di Gorgone: materializzazione non lontana dalle rosee fantasie luciferine dei fratelli anglosassoni Jake & Dinos Chapman.

Delineando un arco, tra apice e caduta, la pulsione creativa di Alessio Delfino sembra preludere a quella distruttiva, a presagire, nella fusione inestricabile degli arti e dei ventri, ancora di Eros e Thanatos, il rientro in uno stato involutivo, preorganico, inanimato, di monito cimiteriale, sotteso allo scenario simbolico delle Vanitas.

Nel movimento del corpo femminile l’artista disegna l’idea della Metamorfosi, la forma del Tempo, le pieghe, pietose e impietose dell’esistenza, le cangianti apparenze di una stessa realtà. Splendente ed inquietante è il ciclo, in mostra, intitolato Metamorphoseis, 2007, in cui Delfino dà corpo, tra miti e riti, ad un non-luogo fisico, a quel mutante femminile che assume, di soggetto in soggetto, grandeur nature, le sembianze di undici dee dell’Olimpo, rivestite tutte, uniformemente, di una patina aurea, in cui è, fatalmente, iscritto un vissuto professionale, psichico, astrologico, umano-troppo umano. Attraverso la Bellezza della Donna, l’artista stesso si trasforma nell’oggetto del suo desiderio.

Le immagini, a partire dalla loro persistenza sulla retina, si compenetrano, dandosi come impercettibili vibrazioni nello spazio. Il corpo nudo della donna, colto nella performatività della danza – viaggio iniziatico, rituale arcaico, momento scenico, epifania, a seconda dei vari cicli di Alessio Delfino, non escluso quello di segno esoterico-teosofico – non cessa di entrare in uno spazio liquido a enne dimensioni. La memoria del movimento, di uno o più corpi nello spazio, si percepisce, nella sua opera fotografica, come nell’ascolto di un testo musicale. La risonanza dell’inizio entra nello scorrere della composizione, per compiersi nel finale, sommuovendo un’onda di ritorno che stimola l’intelligenza emotiva dell’insieme. Le rappresentazioni fotografiche del movimento, di questo ricercatore della Bellezza, tramite l’innovazione tecnologica, si danno nell’istantaneità di una visione di ordine sinfonico. Lo spettatore, di fronte ad un’opera, che si stenta a percepire come fotografica, coglie le tracce mnestiche di un corpo ripreso, di scatto in scatto, nella modalità di un movimento ossimoricamente immobile. Come nella struttura melodica di una scala musicale – nell’arco di una o più ottave – la poetica di Alessio Delfino nasce dalla declinazione, ascendente o discendente, di un fermo immagine, di un succedersi di pose, frequenze, intervalli, pause, stacchi, silenzi.

Il suo iter fotografico, a partire, espositivamente, dalla fine degli anni Novanta, si innesta nella metastoria di un’immagine cinetica, reale o virtuale, che trova i suoi antecedenti in Muybridge e Marey, e le sue espressioni artistiche nei movimenti del Cubismo e del Futurismo. Il suo ciclo dei Rêves è il primo processo radicalmente digitale, iniziato alla fine del 2012. Un’impressione visiva immediata, sembra restituire la totalità fisica del corpo o dei corpi, nel loro movimento nello spazio, mentre, a ben guardare, si possono ritrovare sorprendenti punti di contatto con il processo di sintetizzazione dell’immagine cubista. Infatti, decostruendo la struttura compositiva di parti del corpo, in cui apparizione e sparizione si compenetrano, si scopre che Delfino restituisce l’effetto ottico della trasparenza delle membra, mettendo in opera la modalità della fusione. Si parla appunto di compenetrazione e di fusione, mai di sovrapposizione, il cui esito sarebbe l’opacità e la pesantezza dei punti di contatto. Per visualizzare meglio questo parallelo, sarebbe utile riferirsi, a semplice titolo di esempio, a Les Demoiselles d’Avignon di Picasso o al Jeune homme triste dans un train di Duchamp. Prese le distanze dagli elementi compositivi di cubi, triangoli e spigoli, di questi maestri dell’avanguardia, per focalizzare, nella lettura, cerchi, linee e sinuosità, di questo fotografo contemporaneo, si rilevano ulteriori analogie e rispondenze nella ricercata neutralità dei valori tonali, nell’abbandono della resa prospettica a vantaggio di quella grafico-pittorica, ad effetto arazzo, nel riassorbimento della figura nel fondo, intenzione ed esito avvalorati dal ricorso ad una carta da acquarello, a base di cotone. L’artista infatti parla di desaturazione del colore, di decostruzione dell’impianto strutturale in direzione di una narratività. Delfino persegue, nel processo di stampa digitale, zone di uniformità tra l’immagine ed il fondo, ottenendo il risultato di un’attenuazione del contrasto del chiaroscuro, di una diffusione del luminismo sulla pellicola tattile del supporto. Da un corpo reale nasce la realtà di un corpo immaginale che si dischiude a ventaglio, sboccia in una corolla, si addensa in un tronco, esplode in un astro. Le gambe si flettono, talora, nel vuoto, mani e braccia remano nello spazio. I capelli lisci, al vento o in caduta, mimano la fluidità dell’acquarello, ridisegnano lo skyline di un continuum di visage/paysage, ora addensati ora disseminati.

Entrando visivamente nell’agglomerato dei corpi, digitalmente modellati, vi si potrebbe anche leggere un’intenzione scultorea mai sopita, risalente ai tempi dell’Hasselblad, delle fotografie quadrate, ai sali d’argento, in bianco e nero, quando l’artista, agli esordi, fine anni Novanta, lavorava alla ricerca radicale di astrazione e alla modellazione di figure acefale, fortemente chiaroscurate e ad altissima definizione. Alessio Delfino non cessa di mettere in opera le condizioni di possibilità di un gesto del fotografare che si misura con le dimensioni temporali del Krònos, come scorrimento inarrestabile, e dell’Aiòn, come immobilità assoluta, cristallizzata nella luce. La Visione Greca attrae la danza della vita in un percorso di conoscenza, immobilizzandola sotto lo sguardo della Gorgone, che si appropria magicamente, come nell’amore e nella guerra, nel gamos e nel polemos, dell’oggetto guardato. Non è lo sguardo della donna che danza, stella scaturita dal Caos, come vuole Nietzsche, che ammalia e seduce, ma quello dell’artista che, come lo sguardo del serpente e del veggente, la ritrae, catturandola nell’immagine, incenerendola nel desiderio, facendola implodere, irrevocabilmente, nella chiarità serica della sua opera. Come si legge in Derrida, Alessio Delfino cerca le condizioni di possibilità di incrocio degli sguardi con il tatto, al fine di inaugurare, visivamente, un con-tatto, un incontro tra un io e un tu, tra un sé e un altro, tra la sua identità e l’alterità. Anche a livello materico, la sua opera stimola, sinesteticamente, una lettura fenomenologica, spazializzata, slittante tra il visibile ed il tattile. Soffermandosi sulla soglia batailleana del divieto e della trasgressione, facendo sfilare davanti all’osservatore una pallida e silente processione di statue concettuali, di figure mentali, l’artista pratica alchemicamente l’erotismo come un’ascesa e una discesa dalla macchina celibe di un possibile Grande Vetro duchampiano. Ancora Eros e Thanatos, ancora visioni di sculture greche toccate da un cieco, suggestioni di fronte alla bellezza incrinata della rovina, ancora Bataille che scrive Dell’erotismo si può dire che esso sia l’approvazione della vita fin dentro la morte. Non è da escludersi che l’artista lasci emergere, dal profondo, la sua estetica apollinea, le sue ninfe: remote risonanze di miti, figure, simboli, attinti al patrimonio genetico dell’immaginario occidentale, analizzato da Aby Warburg. O ancora, come sostengono la neuroestetica, la biochimica, la psicologia cognitiva, le sue immagini potrebbero provenire dalla registrazione mnestica di una rete neurale di engrammi, presentandosi, inaspettate, come intermittenti ologrammi. Una connotazione particolare dell’opera d’arte di Alessio Delfino è quella di estendere la rappresentazione della sua visione del mondo alla dimensione del sonno. Un sonno ad occhi aperti, Lucid Dream, nella letteratura anglosassone, che, nella ricerca di scienziati come Frederik van Eeden e Stephen LaBerge, elabora una sua sintassi ed una sua semantica del sogno, prendendo il nome di onironautica, di quel viaggio cioè che esplora lucidamente il sogno, conformandolo al proprio desiderio. A proposito di attività ipnagogica, non è l’interpretazione freudiana dei sogni o quella junghiana degli archetipi, che coinvolge l’artista, ma il processo creativo dell’attività onirica. Infatti come scrive Giancarlo Pagliasso i ‘sogni’ di Alessio, mediante le  bizzarre architetture corporali con cui si presentano, sono in realtà esercizi metaforici o espedienti figurativi per parlarci della sostanza fisica dell’opera (d’arte).

Come nel processo di espansione e compressione dell’illusionismo anamorfico, così il dispiegarsi della reiterazione del corpo, nel movimento della danza, tende a ricomporsi nell’unicità del soggetto. Nella circolarità della sua poetica, ricorrono la reversibilità dell’uno nel molteplice, l’inestricabilità tra conoscenza e desiderio, il transitare dalla luce all’ombra, il confluire del senso estetico in quello ontologico. Chiudere gli occhi per vedere oltre, vedere il Nulla: indistinguibile ad occhi aperti. Passeggiando tra le superbe rovine dello sguardo, sfiorando con il desiderio irraggiungibili sculture greche, attraversando memorie d’antan et de nos jours, di un tempo e di oggi, Alessio Delfino, ritirato nel suo atelier, non cessa di Fotografare ad occhi chiusi, Sognare ad occhi Aperti…Photographier les Yeux fermés Rêver les Yeux ouverts…