alessio delfino

Femmes d’or

Il nudo come bagliore dell’assoluto.

Tutto quello che so della speranza che ripongo nell’amore, è che solo una donna può darle realtà

René Magritte,

 

 

Nell’epoca dell’ammiccamento erotico-televisivo Alessio Delfino cerca un riparo dalle ossessioni visive contemporanee operando uno sfarzoso “raffreddamento” del nudo, un tema vecchio come il mondo e quanto di più difficile possa affrontare un fotografo del XXI secolo. Dopo aver dedicato due serie fotografiche al rapporto tra il corpo e la luce, con esiti brillanti sia nella trasformazione del corpo in paesaggio, sia nella trasfigurazione della carne in esile e misteriosa scrittura, il fotografo italiano approda in questa recente serie, dedicata alle “femmes d´or”, alla fotografia-oggetto. Una fotografia che si fa oggetto barocco, voluttuoso e drammatico. I corpi, e lo sfondo che li ospita, diventano un´unica tessitura di luce alimentata da pulsazioni omogenee; la pelle su cui cade la colata d´oro s´indurisce fino a trasformare la donna in statua.

Delfino fa ciò chiosando il testo di una storia della fotografia, che da Man Ray sfiora Helmut Newton e approda a Robert Mapplethorpe, ritraendo le sue “femmes d’or” come altrettanti trattati sulla luce. La perfezione delle masse, la plasticità dei volumi corporei e l’armonia delle forme seguono Mapplethorpe fin dove l’americano rispetta i canoni classici della bellezza, ma abbandonano il Michelangelo di New York laddove alimenta la propria ossessione per il sesso con una “fotografia pornografica” e muscolare, come dimostra lo scatto-icona di un giovane Arnold Schwarzenegger, esposto negli anni ottanta al Museum of Modern Art come scultura vivente.

Anche Delfino non è insensibile al fascino eterno della scultura, ma il corpo ha per lui una valenza spirituale disattesa da altri grandi fotografi. L’ammasso scultoreo di anima grazie ad un gioco innescato tra la durezza metallica del riflesso e la morbidezza delle sue gradazioni. La fotografia pura evade verso l’arte dell’installazione e l’oro dell’immagine riverbera nella concretezza della cornice, che sembra contenere e proteggere la carne smaterializzatasi nella fotografia. Le foglie dorate trattengono esaltano la fine del corpo come presenza concreta.

Nell’epoca della comunicazione ambigua e dei sottotesti maliziosi a scopo commerciale, il corpo diviene un ricettacolo di segni, di messaggi provocatori e proibiti. Alessio Delfino vi pone rimedio denudando il nudo, togliendo ogni segno e cercando del corpo la Sua forma, la Sua vita. E per non essere scambiato con un fotografo erotico neutralizza i richiami della pelle con una coltre di oro, poi smorza i toni del colore e della luce. Siamo così condotti nella caverna platonica, di fronte alle ombre che ingannano ma propiziano la visione del vero in chi è capace di andare oltre. Siamo di fronte alle vestali custodi di un luogo sacro, del misterioso “senza perché” della vita. Della gratuità della pura e semplice presenza. La fotografia di Delfino, non solletica, non prurigina, non ammicca. Non può perché non ha sguardo, non ha volto. Priva degli strumenti dell’espressione, della volontà come rappresentazione di una potenza e degli indumenti che sono altrettante maschere, le sue donne non possono irretirci ma soltanto offrirsi alla nostra contemplazione definitivamente privata del facile rifugio nel magma ribollente di suadenze erotiche omologate dalla civiltà dell’immagine.

 

Nelle composte pose neoclassiche, nella danza che sviluppa geometrie inedite o nelle contorsioni di un espressionismo acefalo, il corpo della modella diventa geroglifico, simbolo di qualcosa di più alto, di extracorporeo. Tra queste forme assunte dai corpi, vi sono anche le illustrazioni di una possibile danza sacra che la modella improvvisa e che l’artista coglie sulle pieghe di un infinito gioco tra le arti di lei e il cliccante mantra di lui. La danza è pretesto e rito. Un rito privato che ha al proprio centro l’apparecchio fotografico, l’occhio meccanico che registra le scelte dell’artista, la sua estetica il suo credo circa le bellezza e la salvezza. Strana divaricazione quella di Delfino: art director e fotografo d’arte. Diavolo e santo; prosecutore della finzione pubblicitaria e romantico indagatore dell’oltre. La sua condizione è schizoide, strabica, e lo porta a trasformare le donne in altrettante forme d’arte, in astratte visioni alla Brett Weston, il fotografo americano che ha trasformato il nudo immergendolo in una piscina notturna e ne ha ottenuto frammenti di luce, tagli e bagliori di una purezza che Delfino sembra voler raccogliere come un testimone. Ma di cosa? Dei corpi? Sarebbe riduttivo, anche se sono essi il tema evidente attorno al quale ruotano una serie di rapporti studiati e cercati dal fotografo. Ad esempio l’evidente cristallizzazione scultorea della carne, l’asfissia del corpo nell’oggetto barocco, la trasformazione della pelle in luce, la ricerca di forme e proporzioni caratterizzanti, la creazione di armonie classiche e di moderne geometrie.

 

Molto spesso i nudi fotografici non sono tali. Sono visioni erotiche, proiezioni di un inconscio collettivo maschile vestite di abiti raffinati e di suadenze setose che innescano infiniti giochi di finzione, scambi di ruolo, pervertimenti dell’amore e ritardi del soddisfacimento sessuale. Delfino percorre invece una via più impervia, lasciando la strada battuta dell’eros per raccontare la donna “una e molteplice” che tra danze estatiche, riposi interminabili e contorsioni si offre a noi come vestale, matrona e sibilla, la cui anima non sta più nella pelle ma le traspira sopra come una cascata d’oro che blocca nell’eternità il suo grido muto.

Quello ritratto da Delfino è un corpo femminile capace di delicatezze estreme, curve giottesche, fragilità superiori, morbide immobilità, nodosità arboree, radici piantate nella carne e direttrici che convergono verso il centro del mondo. Pur condividendo l’eleganza del disegno di un altro vate del nudo come Helmut Newton, Delfino non ne condivide il “fanatismo per i film di serie B” e quel gusto per le scenografie che eccedono i corpi, straripando di significati, storie e oggetti glamour e fashion. Delfino toglie via tutto l’inessenziale e lascia che siano altri a creare immensi immaginari collettivi maschili. Per lui la nudità è innanzitutto povertà estrema di significato, abbandono di ogni cosa e di sé allo sguardo di un pubblico che viene interrogato. Per questo motivo il corpo femminile può diventare il simbolo dell’assoluto, di ciò che è ab-solutus, slegato da ogni relazione terrena, concreta, contingente, effimera.

Guardando le Femmes d’or, che si stagliano sullo sfondo come emanazioni di luce, vediamo l’immaginazione del fotografo, l’aprirsi del desiderio e di quei segnali fisici che lo suscitano, ma vediamo anche una posizione morale e una definizione filosofica di ciò che vuol dire fotografare il nudo. E forse vediamo, considerando anche le serie fotografiche precedenti di Delfino, un affresco cosmogonico del nudo femminile. Un gusto panteistico per la donna-universo, per la femme-nature, che parte dal Gustave Courbet de L’origine del mondo e giunge fino alla Gradiva di Federico Fellini, passando per l’iconoclasta Marcel Duchamp di Etant Donnée 1 o per il gigantismo dei sogni allucinati del Charles Bukowski di Storie di ordinaria follia. “Quando mi chiesero di raccontare una mia fantasia erotica – confessa Michelangelo Antonioni – stranamente mi soffermai sull’idea della montagna. La natura può essere drammatica, gradevole o idilliaca, ma non può essere erotica. Io però pensavo a un paesaggio di forma umana, fatto di monti e dune dal corpo di donna”. Un mondo, quello di Antonioni, che Deflino conosce bene, che sta oltre l’eros: un mondo di domande senza risposta, conturbante e silente. Capace di alimentare una geometria vitruviana e leonardesca (quella inscritta nelle proporzioni del corpo umano), che avvicina la ricerca di Delfino alle aspirazioni umanistiche del Rinascimento, dell’uomo “misura di tutte le cose”. Nello sguardo “medusante” di Delfino si condensa una matematica sensuale che cerca nel corpo nuove cifre dell’universo, o meglio frammenti di esso custoditi in cornici dorate, in esuberanti gabbie in cui raccogliere i reperti di una personale wunderkammer, una stanza delle meraviglie che ci invita fuori dai sogni a colori di una omologante contemporaneità mediatica per immergerci nell’avventurosa e frammentata realtà di un passato antico dal quale giungono frammenti dorati di statue muliebri. Il microcosmo di Delfino si regge su di una ars inveniendi, una mathesis universale che tenta di afferrare tutte le forme possibili del proprio soggetto. Come per Cezanne la Saint-Victoire, il corpo femminino diventa la rigida ossessione di Delfino: l’inizio e la fine di un viaggio immobile verso e oltre il tempo e lo spazio, a cavallo di un bagliore di luce dorata. Che, per un’effimera casualità, si chiama donna.