Tarots di Alessio Delfino. Appunti per una fotografia iniziatica.
C’è sincronicità fra il nostro stato d’animo e la figura dei Tarocchi che appare e, al di là delle parole, ci pone in un ascolto totale che tocca il corpo, passa per la pancia, il cuore, la testa divenendo poi pensiero ed azione.
Carl Gustav Jung
Nel suo recente libro dedicato ai Tarocchi Alejandro Jodorowsky condensa 40 anni di studi sui Tarocchi marsigliesi, da lui stesso rivisti e modificati, che lo hanno portato a fondare una sua scuola di lettura pubblica delle carte grazie alla quale egli progetta una “terapia sociale”. Il simbolismo, il linguaggio iniziatico, la sincronicità, l’interpretazione simbolica-psicologica e il lavoro pratico che avviene nei suoi affollati seminari si propaga in discepoli psicologi di ogni parte del mondo. Si tratta di una forma di moderno essoterismo che sconfina nella psociterapia e nella psicogenealogia. Seppure l’origine di queste carte affonda con il mito nella notte dei tempi, esse rappresentano indiscutibilmente un serbatoio importante di significati iniziatici poiché legati alle grandi domande che da sempre ossessionano l’uomo: chi sono, da dove vengo, che senso ha la mia esistenza?
Una versione fa risalire l’origine dei Tarocchi all’Egitto antico del Dio Thot, figura creatrice della scrittura (secondo fonti greche antiche) e di ogni scienza, inclusa la magia. Alcune fonti parlano dei Tarocchi come di un libro, che custodiva un sapere ermetico e che è andato perduto. Le carte ne sono le tracce e come tutte le tracce o i frammenti, stimolano e necessitano un continuo proliferare di interpretazioni che le rende immortali e sempre contemporanee rispetto alle epoche storiche che si avvicendano. Non è quindi importante conoscere la verità dei Tarocchi, più importante è approcciarli con la corretta predisposizione mentale. Una predisposizione che si fa fotografia nel caso di Alessio Delfino che decide di interpretare in maniera personale i 22 Arcani Maggiori, iniziando egli stesso un cammino di lettura e di scoperta del senso profondo dei Tarocchi. Come uno specchio essi sono in grado di riflettere in parte anche la personalità del loro interprete. Ma è la potenza del simbolo, la forza dell’archetipo, le suggestioni delle immagini e la simbologia dei colori, che fanno dei Tarocchi un ottimo banco di prova per chi voglia cimentarsi con la ricchezza delel immagini. Sono famosi i Tarocchi del Mantenga, ma ancora oggi artisti e grafici, fumettisti e fotografi si appellano alle figure archetipiche, che già Jung apprezzava come altrettanti viatici di una ricerca interiore,
Per Jung, come per Jodorowsky, i Tarocchi appaiono come figure ermetiche ma possono diventare un linguaggio condiviso grazie alla loro natura simbolica e iconica. Questo aspetto affascina la fotografia di Delfino, il quale sceglie di mettere in scena, in senso letterale, i suoi Tarots esaltandone l’aspetto monumentale. Etimologicamente, il monumento rappresenta un “monito”, una esortazione, un invito alla comprensione e alla memorizzazione di un messaggio che si concretizza in una statua, in una scultura che nello spazio pubblico della piazza trova al sua sede naturale. In questo caso è la fotografia a volere raggiungere la forza del monumento, la capacità di esortare ad una ricerca che l’artista insieme alle donne che fotografa sta compiendo, grazie ad un procedere relazionale per cui è la modella che sceglie il personaggio della carta che vuole interpretare. Un dettaglio non ininfluente per ottenere un risultato finale che ha il sapore di una immagine fuori dal tempo, statuaria ma anche vitale, misteriosa eppure vivida.
Gli Arcani Maggiori del mazzo del Tarocco Marsigliese sono forse la più alta espressione raggiunta nell’arte della raffigurazione dei Tarocchi. Tale interpretazione è stata commissionata nella prima metà del XV secolo da Filippo Maria Visconti, duca di Milano. La gigantesca della foto stampata grazie anche all’atissima qualità con cui vengono ripresi i dettagli, fanno si che ci si trovi di fronte ad una “carta” che ha il sapore di un tableau vivant. La statura non rappresenta un esercizio di stile per Delfino ma rappresenta una dichiarazione di sudditanza dell’essere umano nei confronti del destino e del maschile nei confronti del femminile. La questione dell’eterno femminino affiora nella serie e tratteggia un universo femminile fuori dal tempo e immerso in un mondo di simboli, quello delle carte che sono state usate come divinatorie in Europa soltanto a partire dall’uso che i Gitani spagnoli appresero dagli Arabi durante la loro occupazione della penisola iberica. L’esaltazione della bellezza muliebre e del nudo artistico non impedisce a Delfino di giungere ad esiti concettuali, il cui risultato finale è una ricerca attorno al rapporto che abbiamo noi moderni con il “mito” della conoscenza. In un’epoca post-razionalista come quella in cui ci troviamo (in cui l’economia dipende sempre più dalla psicologia delle masse oltre cha all’altrettanto irrazionale smisurata avidità di pochi potenti e dove la società dello spettacolo ha assunto toni parossistici) questo lavoro di Alessio Delfino ci ricorda che i Tarocchi sono legati indissolubilmente all’ermetismo, alla Cabala e all’esoterismo in generale ed affondano le proprie radici alle origini della nostra cultura, che sono mitologiche e simboliche, prima ancora che razionali e scientifiche.
I Tarocchi sono uno dei simboli più popolari, anche grazie al fatto che ogni Arcano maggiore è una immagine compiuta, di questo rapporto esoterico con la comprensione dell’autentico e dell’origine. Anche nei Tarots Delfino sviluppa una propria fotografia relazionale, alimentata dal rapporto tra l’artista e la musa, che vede le donne proporsi al fotografo con il chiaro intento di interpretare la carta da loro stesse scelta. Delfino parla, conosce, ascolta le aspirazioni profonde delle sue donne, poi ci lavora sopra, creando per loro l’ambiente che più si adatta. L’Imperatrice è il motore di questo procedere, la prima carta realizzata.
Così come il mondo è “rappresentazione”, anche la vita e il destino degli uomini è soggetto al potere del simbolico. La fotografia è dunque chiamata, al di là di ogni riferimento oggettivo, a ricreare le atmosfere
Al di là di una originalità operativa e contenutistica, i punti di riferimento teorico e stilistico di Delfino possono rintracciarci in “modelli” come Erwin Olaf o Helmut Newton, passando per David LaChapelle. Se del primo Delfino ammira le atmosfere vintage ed eleganti, evocative e misteriose, del secondo apprezza l’uso di modelle dotate di una bellezza post-femminista, più consapevole e dai tratti aggressivi, decisionisti, manageriali, perfino sadici. Dell’ultimo maestro citato Delfino assume invece un certo gusto per il gioco, per l’ammiccamento (in lui appena accennato) e per un gusto barocco che, se in LaChapelle conosce i noti eccessi ultrapop e manieristi, in Delfino resta sommesso per non rompere l’equilibrio imposto dal serafico afflato delle carte del destino. La loro “tenuta”, offerta anche dal rigore compositivo, irrompe da una simbiosi postmoderna in cui la fotografia sfrutta ogni sua possibilità per creare uno spazio in cui i sensi e i simboli possono aleggiare con drammatica leggerezza, senza perdere la profondità di una sensazione originaria e senza piombare nei fasti desueti della retorica.
Come fa notare Roland Barthes in un suo libro capitale, per chi guarda è come se il pubblico dovesse “leggere nella Fotografia i miti del Fotografo, fraternizzando con loro, senza crederci troppo”. La fotografia di Delfino produce esattamente un tale effetto di fascinazione non violenta, di seduzione giocosa, di seria ilarità dando all’immagine la possibilità d’essere letta su più piani, stratificandone così il senso e annunciando una fotografia capace di unire glamour e suspense. Come se la bellezza fosse soltanto la maschera di una verità più profonda.
Delfino crea i suoi set in modo maniacale, studiando tutti i dettagli e truccando i personaggi per ore al fine di renderli statuari, attutendo l’erotismo della scena ed esaltando la personalità del personaggio protagonista della carta. Il gusto vintage gli permette di dare un’idea d’immagine “senza tempo”, spostata in un passato che può essere remoto ma anche recente o eternamente presente. Questo rigore “atemporale” si riflette sulla pelle porcellanata del personaggio, che viene così rivestito di una maschera che, come quella del teatro greco antico, permette l’accesso alla simbologia della figura.
L’uso di photoshop in post produzione è bandito. Usa soltanto le funzioni di preparazione della stampa, che si fanno anche analogicamente. Il fotoritocco sarebbe la negazione di un lavoro che ama il dettaglio, l’imperfezione minuta della pelle, quella la ruga nascosta che dà sostanza reale all’immagine. Una piega, un piccolo anfratto o avvallamento, resi quasi impercettibili sotto il makeup, diventano storie per chi sa nutrire un certo feticismo del dettaglio. La fotografia finale è solo l’ultimo passo di un lungo cammino dell’immaginazione. L’improvvisazione e il foto-ritocco sono due elementi estranei all’opera di Delfino, che ama avvicinarsi per gradi, per tentativi all’immagine ideale. “Mi fermo quando esce fuori l’energia, che chiedo all’immagine poiché la composizione ce l’ho in mente prima dello scatto. Mentre scatto vedo il lavoro in progressione, le immagini escono sullo schermo e le vaglio con uno sguardo veloce. Attendo l’immagine che abbia la magia, dopo di che le altre non esistono”.
Nicola Davide Angerame